I grandi dipinti del passato sono grandi progetti.
Nel pensare alla realizzazione di un dipinto siamo spesso portati a immaginare la figura del pittore che esegue pennellate espressive in piena libertà.
In un certo qual modo ciò è vero, ma prima di arrivare alla libertà espressiva il pittore ha diverse cose da fare: preliminarmente mette in atto una sequenza di preparazioni, norme e concetti teorici sulla pittura.
In altre parole, mette in atto dei procedimenti pittorici. Se oggi c’è la tendenza a dipingere direttamente l’opera senza preparazioni introduttive, in passato questo era inconcepibile.
Leggendo qua e la i trattati antichi della pittura, si ha l’idea della grande laboriosità – in termini di metodo – che il dipinto richiedeva prima di essere terminato.
Delle grandi opere esposte nei musei, solo poche persone gustano il valore intrinseco derivante (oltre che dall’iconografia) dal procedimento pittorico.
Nel dipinto “La Distruzione del Tempio di Gerusalemme” conservato presso le Gallerie dell’Accademia a Venezia, l’autore, Francesco Hayez, oltre ad altre componenti di metodo: composizione, strutturazione, valori tonali ecc., esegue una serie di disegni preparatori al fine di avere maggiore sicurezza esecutiva durante la fase pittorica.
Prendiamo come esempio questo dipinto perché è corredato da disegni iniziali, i quali ci fanno ben capire diverse fasi procedurali dell’opera.
Si tratta di schizzi preparatori. Essi confermano l’importanza che Hayez conferiva al progetto.
La composizione generale del dipinto trasmette una straordinaria visione d’insieme dell’avvenimento della distruzione del tempio, dove il disastro è rappresentato nel suo culmine.
Nel dipinto vi sono rappresentate molte figure, che Hayez studia graficamente in vari atteggiamenti. I disegni confermano la laboriosità delle posizioni dei personaggi e il successivo loro sviluppo motorio.
In taluni casi la correlazione tra il disegno e parti del dipinto è precisa, in altri invece i disegni indicano soluzioni poi escluse dall’autore.
Il disegno, in generale, è parte integrante della pittura. Oltre che su carta può essere realizzato, a punta di pennello, direttamente sul piano pittorico in quella fase chiamata abbozzo.
In tale fase la tela (o tavola) dovrà essere già preparata con un precedente abbozzo pittorico a tinte piatte.
Questo procedimento ci viene descritto da Jehan Georges Vibert (1840 – 1902) nel suo trattato “La Scienza della Pittura“, tradotto nel 1893 da Gaetano Previati.
Scrive Vibert:
“…Ogni parte del quadro deve essere abbozzata con tinte piatte, del tono più chiaro ed intenso che sia possibile, del colore principale dell’oggetto che rappresentano, perché i sotto strati tendendo sempre a ricomparire è meglio che siano troppo brillanti: ciò compensa la tendenza ad annerire degli strati superiori.
Si dovrà avere gran cura di fondere i contorni e di non lasciare nessun tocco di pennello rilevato, perché niente disturbi poi l’esecuzione.
D’altronde, prima di ridipingere su questo abbozzo, vi è sempre modo di togliere col raschiatoio ben tagliente tutte le ruvidezze esistenti.
Insomma, questo abbozzo diretto ad olio è piuttosto una preparazione che si fa subire al piano soggetto per renderlo adatto alla pittura, che uno schizzo intelligente. Si dirà: ma è triste e monotono, è un lavoro manuale, non vi è fatto alcun posto all’ispirazione, al caso.
Prima di tutto, lasciamo sempre il meno possibile al caso; e in quanto all’ispirazione è appunto per darle maggiore libertà al momento di finire che prendiamo tante cure del disotto.
Se nella foga della esecuzione lasciate dei piccoli spazi vuoti fra i vostri tocchi, non vi sarà nessun inconveniente.
Il tono dell’abbozzo, essendo pressoché quello definitivo, non ha più bisogno di rappezzi dappertutto, mentre che, se eseguite sopra un abbozzo di un altro tono, bisognerà colmare tutti questi piccoli intervalli, la qual cosa infiacchisce l’esecuzione togliendole la spontaneità.
Se, proprio al posto di una particolarità delicata, capitate su di una grossezza od un vuoto come se ne trovano negli abbozzi d’ispirazione, sarete molto imbarazzati, e sarà un ben più faticoso lavoro manuale quello di riempire tutti i buchi e raschiare le prominenze; e davvero, se lavoro manuale vi deve essere, vale meglio che egli sia disotto che disopra.
Così pure, se l’abbozzo comporta dei tratti sentiti, delle accentuazioni vigorose, siccome nel finire non si conserva assolutamente il disegno primitivo, si sarà molto più impacciati che se i contorni sono poco fermi e gli accenti poco marcati.
L’ispirazione (eccola finalmente!) può condurvi nell’esecuzione dì certe parti e contentarvi di una semplice sfregatura, che non avrà conseguenze sopra un disotto solido e regolarmente coperto;
ma se siete capitato, senza colore, proprio sopra quella parte dell’abbozzo ispirato dove non vi è quasi niente, questi due niente sovrapposti non saranno sufficienti e vi bisognerà forzatamente nutrire il punto dimenticato a detrimento della spontaneità dell’esecuzione che avreste voluto giustamente conservare.
Oltre di che, potete sempre, nel finire, ottenere un tono tanto dolce e graduato quanto vorrete sopra un abbozzo brillante, anche un po’ crudo; mentre non otterrete mai un colore al suo massimo grado d’intensità sopra un tono sordo.
Tutt’al contrario, sovrapponendo un colore intenso su se stesso ne aumentate la potenza in una proporzione considerevole.
Infine è per lasciare all’artista la facoltà di eseguire a suo talento, di pieno impasto, a mezzo corpo, in sfregature ed anche a velature, che consigliamo un abbozzo che non lo tedierà mai e gli assicura la possibilità materiale, realizzando tutte le sue fantasie, di seguire interamente la sua ispirazione di tanto, quanto possa esserne dotato.
E poi questo abbozzo savio e regolare è la sanità assicurata della pittura, è il suo vestimento disotto.
Per portare impunemente in ogni stagione degli abiti leggeri di fantasia mettete di sotto una buona flanella; ebbene, l’abbozzo quale lo raccomandiamo, è la flanella del quadro.
Terminato l’abbozzo, è superfluo dire che bisogna lasciarlo seccare prima di ridipingere.
E siccome i colori non vi sono molto grossi e l’olio è in parte assorbito nel legno e nell’imprimitura, non è necessario aspettare tanto tempo, come se si fosse abbozzato su di una superficie non assorbente e con grandi impasti.
Un mese, in un ambiente bene asciutto, o una quindicina di giorni al sole d’estate, bastano perfettamente.
Quando l’abbozzo sarà ben secco, si dovrà passare uno strato generale di vernice per ritoccare su tutto il quadro prima di riprenderlo.
Questa vernice, lo abbiamo detto, secca in qualche minuto e si può dipingervi sopra immediatamente.
Essa ha per iscopo, penetrando nell’abbozzo, di andare a riempire tutti i vuoti che l’olio assorbito dal piano soggetto ha lasciato nello strato di colore, e di depositare alla sua superficie una pellicola di resina normale che servirà di legame fra questo strato di colore e il successivo, nello stesso tempo che toglie i prosciughi e arreca già uno splendore ed una trasparenza più grande….”